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martedì 4 agosto 2009

Le linee politico-programmatiche di FRANCESCA BARRACCIU



La Sardegna che guarda avanti.

La missione dei democratici: trasformare la società
Due anni fa abbiamo aderito al Partito democratico perché conquistati dalla proposta di rinnovamento che questo nuovo partito rappresentava. Conoscevamo la crisi profonda dei partiti usciti dal Novecento. Sapevamo che quei vecchi partiti, pur protagonisti fondamentali della storia del secolo scorso, si erano ormai inariditi, burocratizzati, sclerotizzati. Avvertivamo come un pericolo per la democrazia italiana la loro crescente separazione dalla società, dai suoi fermenti, dalle sue ansie di innovazione, dalle sue necessità e bisogni. La sfida, per un partito nato in un simile contesto, era quella che ha sempre animato nella storia le formazioni progressiste e democratiche: dirigere la società verso una maggiore uguaglianza, libertà ed emancipazione, intesa come possibilità di realizzare pienamente le potenzialità di una collettività e di ogni individuo. L’obiettivo che ci poniamo, dopo questi primi due anni di vita del PD, è dunque un grande progetto di trasformazione della società. Un progetto con lo sguardo lungo, pensato per i prossimi cinquant’anni, del tutto alternativo alla visione conservatrice della destra. Un pensiero politico del Duemila, in cui a un’importante riforma delle istituzioni corrisponda una nuova politica economica rifondata su nuove basi, a partire dall’attuale crisi e permeata da una visione strategica originale e di ampio respiro.
Un pensiero politico che promuova un’idea di sviluppo basata sul concetto cardine della sostenibilità intesa in due sensi: sostenibilità ambientale, perno di una riconversione energetica, degli stili di vita e dei modelli di produzione; sostenibilità sociale, adeguata ai problemi sociali di questi tempi, tra tutti il lavoro, il precariato, le nuove povertà, la solidarietà e la coesione territoriale del Paese.

In Sardegna sappiamo come fare
Il Partito Democratico in Sardegna deve innanzitutto essere sardo. Deve, cioè, prendere in mano la bandiera della questione sarda. Certo, una questione sarda degli anni Duemila, che deve radicarsi nelle trasformazioni profonde della nostra regione in atto da alcuni anni a questa parte. Non la riproposizione della pur gloriosa storia dell’autonomismo, ma una interpretazione originale della realtà e del destino futuro della Sardegna che si traduca in un progetto politico intorno al quale chiamare a raccolta le nuove e le vecchie generazioni, le donne e gli uomini di buona volontà (e ce ne sono tanti) che hanno a cuore le sorti della Sardegna. Un partito che prenda le mosse, anche in campo politico, dall’interpretazione moderna delle specificità sociali e culturali della Sardegna. La cultura democratica e autonomista sarda, oltre che al socialismo europeo e al cattolicesimo democratico, può e deve ispirarsi al sardismo progressista di Emilio Lussu. La Giunta presieduta da Renato Soru, governando la Sardegna per quasi 5 anni, ha modificato radicalmente i termini della antica questione sarda lasciandoci una eredità importante. Una eredità che dobbiamo raccogliere e portare avanti, continuando, da un lato, alla elaborazione di quel progetto che ha rappresentato un vero laboratorio politico anche per il PD nazionale e, dall’altro, lavorando per correggerne i limiti evidenziati dalla sconfitta elettorale, in particolare, la difficoltà di aggregare un blocco sociale maggioritario attorno al grande progetto riformatore avviato dal 2004 al 2008. Noi riteniamo che, in Sardegna - nell’adeguarci al nuovo sistema elettorale con l’elezione diretta del Presidente della Regione e della maggioranza a lui collegata in maniera inscindibile secondo il principio del simul stabunt, simul cadent - sia mancato proprio il ruolo ed il lavoro di un grande partito riformista. Ora sappiamo che è necessario trovare le forme di una governance collettiva che sappia fare sintesi di posizioni e visioni diverse dando impulso ad un’azione di governo efficace, coesa e stabile. Ecco perché miriamo alla promozione di un modello politico non duale, con un partito che si contrappone ai presidenti o ai sindaci, ma reticolare che riesce a includere, ai vari livelli, i vertici di governo, gli organismi di partito, i militanti, i cittadini e le rappresentanze sociali attorno ad un progetto riformista veramente capace di promuovere e sostenere il cambiamento. La Sardegna di oggi, dopo la sconfitta alle elezioni regionali, vive sul filo di una alternativa che non esitiamo a definire storica. Può essere “berlusconizzata”, cioè può precipitare ancora nelle condizioni di periferia, emarginata del sistema economico non solo nazionale, ma globale, a dimensione tendenzialmente mondiale. Può tornare ad essere – come la pensa e la vuole la destra – solo un’isola delle vacanze, il luogo del turismo d’élite, l’immagine patinata delle veline e dei vip, una terra senza vocazioni produttive proprie con le zone interne lasciate alla deriva e alla criminalità e un’economia importatrice di beni e tributaria di risorse esterne: insomma, una terra di colonia su cui mantenere il 60% delle servitù militari nazionali, dove esportare fumi di acciaieria e altre scorie o ipotizzare di installare nuove centrali nucleari. O può essere – a partire dall’ultima esperienza del centrosinistra in Sardegna - l’esatto contrario: una regione mediterranea consapevole della sua centralità, specie nella nuova epoca delle grandi migrazioni e dell’economia globale. Un’isola che promuove la pace, gli scambi culturali verso le altre sponde del Mediterraneo e che diventa piattaforma logistica della rete mondiale del trasporto via mare. Può essere un luogo di valorizzazione del made in Sardinia, attento a tutelare e modernizzare le produzioni locali, ma senza rinunciare ai grandi comparti industriali a cominciare da quello chimico, che va conciliato con le istanze dell’ambientalismo e difeso a denti stretti. Un’isola gelosa della sua identità culturale, ma senza chiusure, nella coscienza che le identità vivono in quanto capaci di misurarsi con altre identità, di dialogare con altri mondi e, se necessario, anche di integrarsi con essi modificando la propria natura originaria. Insomma, partiamo dalla questione sarda, dall’identità e dalla cultura del nostro popolo, per affrontare adeguatamente le sfide di oggi e di domani.

Vogliamo l’isola più istruita e più verde del mondo
I sardi, specie dopo i tradimenti del governo Berlusconi e della giunta Cappellacci – come lo scippo del G8, l’annullamento di importanti opere stradali come la Sassari- Olbia, i casi Euroallumina, Assemini e Porto Torres, il caso Tirrenia, lo scippo dei fondi Fas - sono più poveri e marginali. Le politiche del centro destra nazionale e regionale, nella nostra isola hanno pesantemente aggravato gli effetti della crisi economica internazionale. In pochi mesi in Sardegna i disoccupati sono cresciuti di 30mila unità, di cui circa 4mila privi di qualsiasi ammortizzatore sociale. Noi dobbiamo capire questa crisi e starci dentro con le nostre lotte e le nostre proposte, alcune già presentate dal Partito Democratico in Consiglio regionale e solo parzialmente accolte dalla maggioranza di centro destra. Proposte per sostenere il reddito di chi perde il lavoro, per eliminare il precariato nella pubblica amministrazione, per realizzare progetti di reinserimento lavorativo degli addetti delle aziende che si trovano a cancellare produzioni. Continueremo a formulare proposte per offrire ai giovani maggiori e migliori occasioni di lavoro attraverso il sostegno all’istruzione, all’apprendistato e incentivando le aziende che offrono ai nostri giovani l’opportunità di mettersi alla prova. È per noi un dovere morale, contribuire alla costruzione di una Sardegna più civile e più umana, che non dimentica i più deboli, ma anzi accresce l’attenzione nei confronti di chi sopporta i maggiori disagi della crisi globale. Vogliamo diminuire, non aggravare, le distanze sociali e le distanze tra i diversi territori della Sardegna: tra le coste, apparentemente lambite dal flusso del denaro connesso al turismo estivo e le aree interne, lasciate drammaticamente sole a fronteggiare i loro problemi di povertà, disoccupazione e conseguente spopolamento. La recente e drammatica crisi economica ci conferma che nell’economia globalizzata non si può sopravvivere senza elevati standard di istruzione e di eccellenza nelle produzioni. Un presupposto che ci costringe a riformulare la concezione di mobilità ed equità sociale e delle politiche per il lavoro, per ancorarle saldamente alle politiche dell’istruzione. Puntare sulla qualità, sull’eccellenza, sulla parte alta della filiera produttiva, dove contano di più la creatività e il capitale umano. Investire in conoscenza, scuola, poi università, ricerca, innovazione, formazione, cultura. Valorizzare la capacità di produrre o di inventare cose che piacciono a un mondo voglioso di qualità. Qualità significa valorizzare la bellezza del nostro territorio, delle coste, delle montagne, delle città e dei borghi, della loro storia e del loro patrimonio culturale. Valorizzare un tessuto di piccole e medie imprese legate al territorio. Valorizzare le nostre radici e le nostre tradizioni, un intreccio unico di storia e cultura, di artigianato, di agricoltura e prodotti tipici, di buona cucina, di coesione sociale e stili di vita. Anche per questo investiamo sull’ambiente. L’economia verde deve essere la nostra priorità. La green economy sarà nel prossimo decennio ciò che è stata la rivoluzione informatica negli anni 80, il nuovo motore dell’economia mondiale. Chi raccoglierà questa sfida sarà protagonista; chi si attarderà è destinato a rimanere ai margini. Per centrare questo obiettivo, però, serve un Partito Democratico più coraggioso e più netto nei suoi sì e nei suoi no. Sì dunque a una radicale riconversione del nostro sistema energetico verso l’efficienza, il risparmio, le fonti rinnovabili. No al nucleare, pericoloso, costosissimo e non più attuale. Sì a una rivoluzione fiscale che alleggerisca il prelievo su lavoro e imprese che inquinano e consumano meno. No all’abusivismo e al consumo spregiudicato di territorio. In Sardegna l’abbiamo detto e fatto con la legge Salvacoste e il Piano Paesaggistico. Sì a uno sviluppo locale e urbano che scelga una mobilità sostenibile e meno soffocata dal trasporto su strada, che opti per sistemi moderni di smaltimento dei rifiuti. In Sardegna in soli 4 anni sotto la Giunta Soru la raccolta differenziata è passata dal 5 al 50%. Dobbiamo avere fiducia nei nostri talenti. Abbiamo territori ricchi di saperi diffusi, di creatività, di comunità che conservano qualità della vita e forte coesione sociale. Dobbiamo valorizzare questi talenti con l’innovazione, sfruttando le grandissime opportunità offerte dalle nuove tecnologie dell’Information and Communication Technologies (ICT) che in Sardegna, culla di Internet in Italia, hanno avuto un notevole impulso dando vita ad un know how diffuso ed ad una miriade di nuove aziende altamente innovative.

La specialità sarda nell’era della globalizzazione
Oggi le ragioni della specialità sono messe in discussione dalle politiche sull’emergenza economica del Governo Berlusconi - che hanno fornito l’alibi costituzionale per riaccentrare molte politiche regionali - e dalle regioni “ordinarie” che vivono la nostra specialità, e quella delle altre regioni a noi equiparate dalla Costituzione, come un insopportabile privilegio finanziario. Dobbiamo invece far valere il fatto che la specialità è opportunità di riconoscimento delle differenze, specie nella prospettiva europea del rispetto della diversità. In questo contesto il riconoscimento delle singole identità può concorrere a costruire un nuovo livello di unità dello Stato, basato sul rispetto delle autonomie e, insieme e in modo inscindibile, su quello della solidarietà. In questa prospettiva l’obiettivo prioritario non è quello di rivendicare nuove competenze, ma di poterle esercitare in periferia, cioè nelle singole regioni e al centro, cioè negli organi centrali dello Stato: ossia passare dalle autonomie regionali allo Stato delle autonomie, cioè ad una organizzazione federalista dello Stato e dei suoi organi centrali. La specialità non è un privilegio, ma il riconoscimento delle diverse forme di partecipazione alla formazione dello Stato repubblicano e tale riconoscimento non può venir meno se non minando le fondamenta dello Stato nazionale. Le autonomie vivono oggi dentro la grande rete delle istituzioni nazionali e internazionali. Vivono nell’era della globalizzazione delle economie e dei mercati, dello strapotere delle grandi multinazionali senza volto che gli stessi stati nazionali stentano a contenere coi loro strumenti normativi e la loro autorità circoscritta entro confini precisi. Vivono, infine, nell’età della massima partecipazione e della comunicazione globale, Internet dà accesso a chiunque al cuore dell’informazione ed i problemi tendono a presentarsi su una scala che sfugge alle procedure tradizionali. Che tipo di patto faremo allora, in questo nuovo contesto, con lo Stato, che si organizza per assumere un nuovo assetto federale? Innanzi a questa domanda cruciale, dobbiamo prepararci a svolgere, da PD della Sardegna, un ruolo molto più ambizioso rispetto al passato. Nel 2004-2008 abbiamo saputo farlo assumendoci nuove responsabilità e competenze in tema di servitù militari, di servizi sanitari e sociali, di trasporto pubblico locale e attraverso la riuscita vertenza con lo Stato per un più alto livello di compartecipazione alle entrate fiscali. Lo abbiamo fatto regolando le attività pubbliche attraverso strumenti come il Piano Sanitario regionale che mancava in Sardegna da 25 anni, cancellando oltre 70 enti inutili, riconducendo la gestione dell’acqua ad un unico soggetto pubblico, fissando obiettivi, regole e strumenti che hanno reso maggiormente rendicontabile e trasparente la pubblica amministrazione. Lo abbiamo fatto affrontando per primi in Italia il tema del conflitto d’interessi e ponendo con chiarezza il problema delle incompatibilità e ineleggibilità di chi ricopre cariche pubbliche. Oggi, partendo dal quelle esperienze, dare nuova linfa alla nostra specialità significa ampliare le nostre competenze in materie come le politiche per l’istruzione, la tutela dei beni culturali ed archeologici, il commercio estero, la fiscalità di vantaggio, le politiche energetiche.

Semplicemente democratici: il nostro modello di partito
Il Partito Democratico è nato come il partito dei cittadini elettori e degli iscritti: flessibile, aperto, collegato per più fili al dinamismo della società, capace di vivere tra la gente, consapevole e partecipe dei movimenti sociali. Un partito radicato nel territorio, fatto di iscritti ai Circoli, nei quali discutere, e di cittadini da consultare e coinvolgere attraverso le forme offerte dalla tecnologia informatica più avanzata e attraverso le primarie come imprescindibile, sebbene perfettibile, metodo di partecipazione. Un partito laico, democratico, consapevole e certo delle sue radici, perché senza memoria storica non si sopravvive, ma al tempo stesso permeabile alle novità, curioso del cambiamento, post-moderno. Un partito di giovani e adulti, di donne e uomini di buona volontà. Crediamo adesso più che mai che ci sia bisogno di questo partito nuovo: in Italia e in Sardegna. Un Partito democratico che in Sardegna vogliamo diventi federato a quello nazionale; capace di autogoverno e autonomia organizzativa tali che possa definirsi partito della nazione sarda. Un Partito democratico con uno statuto regionale equilibrato che affermi il ruolo centrale dei Circoli e assicuri lo spazio alle istanze provinciali e regionali. Il patto con i circoli Sgombriamo però subito il campo da un equivoco: il Partito democratico a cui pensiamo non è affatto un partito “liquido”, privo di regole e di strutture. Al contrario - come ha dimostrato Dario Franceschini - è un partito “solido”, fatto di donne e uomini – o come avrebbe detto Gramsci – “in carne ed ossa”. Un partito radicato sul territorio, che vuole avere un Circolo in ogni paese, essere presente in ogni quartiere - cominciando dai più popolari, abbandonati negli anni scorsi a loro stessi - con una sede aperta e frequentata. Circoli che non siano solo luoghi per misurare i rapporti di forza nei congressi o per comporre organi e giunte, ma che si occupino giorno per giorno, ora per ora, del territorio e dei problemi delle comunità locali di cui sono espressione. Circoli (e iscritti) che rifiutino di appartenere a Tizio o a Caio, a un capetto o all’altro. Che al congresso votino il segretario nazionale non in base all’indicazione ricevuta da qualcuno che conta ma secondo coscienza, scegliendo il candidato che pensano possa fare meglio per il loro partito. La nostra proposta al Congresso regionale partirà proprio da qui, da questo fondamentale livello della nostra vita democratica: un Patto con i Circoli che faccia funzionare il partito dal basso. Un Patto che rispetti la pluralità di culture che arricchiscono il nostro partito.

Tanti giovani, tante donne
La politica, specialmente quella sarda, soffre di un male ormai antico: il mancato rinnovo dei suoi quadri dirigenti - politici di lungo corso dal curriculum intramontabile, nessuna new entry - la vecchiezza dei concetti, dei linguaggi; l’incapacità di elaborare idee nuove, di fare sintesi rispetto alle domande che provengono dalla società sarda. Noi vogliamo un partito in cui il rinnovamento necessario dei gruppi dirigenti non abbia nulla a che vedere col “nuovismo” né con le scelte dall’alto, ma significhi valorizzare e investire sull’esperienza e sul radicamento territoriale. Crediamo nella gavetta e quindi nei sindaci, amministratori anche di piccoli centri, dirigenti provinciali e coordinatori di Circolo. Crediamo nel coraggio di guardare fuori delle proprie finestre, per attrarre e valorizzare nel partito quanto di meglio offre la società nei suoi spazi di promozione culturale e sociale. Vogliamo un partito che nasca dal mix tra iscritti ed elettori, che premi le competenze, che mette la persona giusta al posto giusto, che al suo interno formi e valorizzi i giovani e i meno giovani. Vogliamo un partito con una rete di scuole di formazione politica, non intese come luoghi cattedratici di indottrinamento, ma come sedi vive di confronto a metà tra lo studio e l’esperienza pratica, con docenti prestigiosi, che abituino i nostri militanti alla fatica del migliorarsi ogni giorno. Noi ci impegniamo a valorizzare il ruolo dell’organizzazione giovanile del PD come primo luogo della formazione politica. L’empasse che ha impedito in Sardegna la costituzione dei gruppi dirigenti ha frenato anche la costituzione dei Giovani Democratici che in tutta Italia iniziano a strutturarsi. Vogliamo una organizzazione giovanile che non sia la sommatoria di rappresentanti in quota alle varie correnti del partito, ma che sia fondata sull’autonomia. Quando i giovani iniziano ad emanciparsi dai dirigenti del partito, significa che l’organizzazione giovanile di un partito funziona. Un partito che voglia investire su valori rinnovati non può non assumere la democrazia paritaria come un valore cruciale nell’elaborazione di una nuova cultura politica. Non parliamo più solo di quote, ma di un obiettivo più ambizioso: la partecipazione attiva delle donne alla costruzione delle istituzioni della democrazia e la condivisione dello spazio pubblico da parte dei due generi. Eguale responsabilità di donne e di uomini nel processo democratico e una nuova idea di convivenza nello spazio pubblico e in quello privato. Non ci si può definire riformisti se le donne non sono protagoniste. La partecipazione delle donne, la valorizzazione delle loro competenze, devono sempre più costituire parte importante dell’identità del PD ed essere elemento imprescindibile della modernizzazione del Paese e della Sardegna. Consideriamo importante la novità che ha contrassegnato la nascita del PD: l’obbligo della presenza del 50% di donne nelle assemblee e negli organismi direttivi. La breve esperienza del PD evidenzia però che questo da solo non basta. E’ necessario dotarsi di altri strumenti per rendere effettivo quell’obiettivo. Il fatto che le donne elette nelle istituzioni siano ancora troppo poche e poche quelle presenti nei vertici del Partito, impongono una riflessione. Il PD ha il dovere di agevolare l’ampliamento della sfera di autonomia e di potere di cui le donne dispongono incidendo per esempio sui tempi della politica che vanno regolati e disciplinati per permettere non solo alle donne, ma anche agli uomini di poter far coesistere la propria dimensione familiare privata con quella pubblica.

Amiamo il PD
Dobbiamo imparare ad amare il nostro partito. Perché il Partito Democratico è lo strumento di cambiamento che ci consente di guardare con speranza all’Italia ed alla Sardegna del futuro. PD del dopo Congresso regionale dovrà essere unito. Ci sarà un vincitore, ma nessuno dovrà sentirsi sconfitto. Se dovessi vincere mi impegno a valorizzare sino in fondo le nostre risorse comuni, senza privarmi dell’opera di nessuno solo per sciocche ragioni di schieramento. Se dovesse prevalere un altro candidato mi metterò a disposizione del partito e del segretario vincitore. Un partito unito, dunque. Nel quale, come prima mossa, dovremo smontare le correnti e mescolarci proficuamente. Vorrei aggiungere a queste linee programmatiche, che racchiudono valori e obiettivi da promuovere e condividere per un nuovo inizio del PD sardo, due ulteriori impegni che mi stanno molto a cuore. Il primo è di rilanciare il settore della comunicazione sia attraverso gli strumenti innovativi legati ad internet ed alle reti sociali che con i media tradizionali dove spesso non otteniamo adeguata visibilità per le nostre idee e proposte. Il tema è complesso e riguarda il ruolo dei media in Sardegna e loro contiguità con forti interessi politici, economici, imprenditoriali. Questo, però, non deve impedirci di rivedere e rielaborare la nostra strategia di comunicazione sui mass media spesso disarticolata ed in alcuni casi contraddittoria nelle posizioni espresse dai nostri rappresentanti. Dobbiamo migliorare e potenziare la nostra capacità di esprimere tutta la diversità e ricchezza delle nostre posizioni nel dibattito interno per ritrovare la massima unità nelle posizioni che prendiamo pubblicamente. Non è un ritorno al centralismo democratico, ma è una regola sana propria di ogni organizzazione che non voglia dare di sé un’immagine confusa e che sia consapevole delle proprie responsabilità e del proprio ruolo nella società. Una migliore capacità di diffusione delle nostre idee non toglierà nulla all’azione territoriale, casa per casa, dei circoli. Anzi, la potenzierà. Il secondo impegno è di creare una rete diffusa nel territorio di laboratori di idee - nella quale chiamare le migliori energie del nostro partito e anche personalità che non vi hanno aderito - che funzioni da think-tank, da luogo di elaborazione di critiche e di proposte. Anche queste linee programmatiche rappresentano solo un punto di partenza da arricchire nel corso del dibattito congressuale che ci porterà alle primarie del 25 ottobre. Per tutto questo e per niente di meno, mi candido. Non per un progetto personale, ma per una volontà collettiva: quella di costruire, insieme, un partito che abbia il coraggio e l’ambizione di farsi promotore di un progetto di trasformazione della società sarda. Un partito al passo con una Sardegna che vuole guardare avanti, capace di promuoverne la crescita sociale e culturale attraverso politiche pubbliche innovative che possano essere d’esempio per il mondo contemporaneo.

Francesca Barracciu
Candidata alla Segreteria del Partito Democratico Sardo

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