sabato 30 luglio 2011

L'addio a Pablo Volta

Mai più la Sardegna sarà fotografata come fosse l'Odissea. E non perché non abbia più nulla di mitologico. Esistono ulivi millenari, per esempio. Pablo Volta aveva ottantacinque anni, era nato a Buenos Aires da padre italiano e madre argentina. È scomparso giovedì sera, non nella sua casa di San Sperate, ma mentre si apprestava a fare una risonanza, dopo avere sopportato mesi di cure per lottare ancora per la vita. Avrebbe piuttosto preferito la sua poltrona in cucina, i suoi due amati cani ai piedi, la gatta Teresina appollaiata sul davanzale della finestra, a fissare la fissità. Ma la morte beffarda arriva e basta. Senza una sceneggiatura, una regia. Va restituita, invece, una regia a Pablo, che della Sardegna di sessant'anni fa ci consegna fra le immagini più straordinarie, autentiche e poetiche, che siano state scattate.
Spetta, a un fotografo come lui, avere intorno un paesaggio per la sua fine, luci, parole, anche una musica. Delle persone forse si era abituato a farne a meno, piacendogli assai il gusto di sapere che tanti amici c'erano mentre lui se ne stava solo, con tanti cani trovatelli, che si sono succeduti, e tanti libri, in francese e italiano, ancora lì, sulla sua poltrona. Un forte rapporto con la moglie Ornella, rimasta a Parigi quando Pablo aveva deciso di trasferirsi a San Sperate, nel 1987, era nutrito da un ritrovarsi o in via San Giovanni o in rue des Tournelles. Ornella, sua compagna di una vita, a Parigi cura l'archivio Erik Satie e l'archivio del marito. Ma il paesaggio per Pablo non potrebbe essere quella città, seppure vi abbia vissuto, conosciuto e fotografato il clima di metà secolo, ritraendo André Breton, Marguerite Duras, Laurence Durrell, Eugène Ionesco, Pierre Klossowsky, Tristan Tzara, Giuseppe Ungaretti, Karel Appel, Hans Arp, Alexander Calder, Marc Chagall, Salvador Dalì, Jean Dubuffet, Marcel Duchamp, Le Corbusier, Man Ray, Joan Miró, per dire alcuni nomi. Un paesaggio possibile, per non immaginarlo nello sfondo bianco e alluminio dell'ospedale, è un giardino di sculture di Pinuccio Sciola. L'amico per cui Pablo aveva scelto San Sperate, "lo scalzo" che lo incuriosiva, con quella sua febbre per la pietra e la volontà di tradurre l'epos col muralismo. Un giardino di sculture a fine inverno, zagare, arance, borragine, le opere intraviste fra i rami, in armonia con la natura. Pablo vi passeggiava e fotografava il passaggio della luce fra i pettini di basalto dei litofoni, la rugiada e i licheni sulle pietre. Scattava senza posa, non per scoprire, ma per ribadire il segreto dialogo fra lo scultore e il basalto o il calcare. L'ultimo paesaggio per Pablo è questo. Le luci anche, luci d'inverno sardo, sciabolate di sole su verde tenero. Una musica, la breve “Sonata per un uomo buono”. Per un uomo che di sé parlava a stento, tenendo basso un altissimo profilo, professionale ed umano. Sapeva dosare le parole, i giudizi. Era abituato a osservare, prima che a dire. Ma era anche uomo del fare: a 18 anni partigiano sulla linea gotica, Alpi Apuane, poi alla scuola fotografica dell'esercito di occupazione americano a Berlino, città che ha fotografato nella devastazione dei bombardamenti.
Una vita in movimento fra Roma e Parigi, reporter del settimanale Il Mondo, fra i fondatori della cooperativa Fotografi Associati. Ma soprattutto Sardegna, “come l'Odissea”, luogo del destino, sin dalla città natale, quella Buenos Aires che deve il suo nome alla Madonna di Bonaria. Ma questa è un'altra storia. Come quella di un paesaggio che non conosceva ma tornava spesso nei suoi sogni.

Un giorno se lo trova davanti davvero, in Sardegna. Come si trova davanti, dopo avere seguito le orme dell'antropologo Franco Cagnetta, il carnevale di Mamoiada, nel '57. Pablo Volta è il primo a fotografarlo e quelle immagini sono così potenti perché mai viste fino allora, come un incantesimo colto nel suo segreto compiersi e per sempre svelato senza svelare, detto senza esibirlo, senza forzare, piuttosto stando un passo indietro. Fosse per lui, la Sardegna sarebbe ancora dentro quell'incanto. E non perché avesse in spregio la modernità - si era messo addirittura a fotografare in digitale - ma perché la modernità è proprio consapevolezza e rispetto della memoria. Degli avi. Di chi con argilla e paglia ha costruito case, col legno intagliato maschere. Alcune sere fa avevamo sfogliato insieme alcuni cataloghi sulle maschere africane. Il padre ne aveva una collezione. Da un catalogo ha voluto rileggere una poesia, di Birago Diop, 1947: Ascolta più spesso le cose che gli Esseri./La voce del Fuoco, s'intende/, ascolta la voce dell'Acqua/. Ascolta nel Vento/ il cespuglio in singhiozzi:/è il respiro degli Antenati./Quelli che sono morti non sono mai partiti:/ sono nell'ombra che si dirada/e nell'ombra che si ispessisce/.I morti non sono sotto la Terra:/sono nell'albero che freme,/sono nel bosco che geme,/sono nell'Acqua che scorre,/sono nell'Acqua che dorme,/sono nella Capanna, sono in mezzo alla Folla:/ I morti non sono morti.
Oggi alle 16,30 a San Sperate, piazza Santa Croce, ultimo saluto a Pablo Volta.


Raffaella Venturi

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