di GIORGIO PISANO da L'Unione Sarda
Fascia tricolore bene in vista: doveva essere chiaro a tutti
che rappresentava il Comune. Unica trasgressione istituzionale, i capelli
rigorosamente spettinati. E i jeans, senza neppure il compromesso d'una
cravatta.
Gianluigi Piras, assessore a un sacco di cose a Jerzu, ha
partecipato al corteo contro le vittime dell'omofobia immaginando tutto il
resto, gli inevitabili strascichi del dopo: malignità, stupore, indignazione e
qualche mal di pancia della maggioranza. Lo ha fatto perché lui, il suo sindaco
e la giunta ci credono. Ci credono a tal punto che prima ancora di scendere in
piazza hanno varato una delibera per imporre una sorta di autocertificazione a
chiunque chieda di utilizzare aree o impianti del Municipio. «Devono garantirci
per iscritto che sono contrari a discriminazioni di qualunque tipo».
Patria del Cannonau, Jerzu ha poco più di tremila abitanti e
nel far west d'Ogliastra passa per essere un paese tranquillo, senza scosse di
cronaca. Primo dei tre figli di un dirigente scolastico e di un'insegnante,
Piras ha deleghe per il turismo, cultura, sport, spettacolo e servizi per
l'infanzia. Trentacinque anni, studi in Giurisprudenza abbandonati lungo
strada, fa parte di una società che svolge servizi di consulenza per progetti
comunitari. Ci campa? «Ci vorrei campare». Nel frattempo fa il portavoce del
segretario regionale del Pd, Silvio Lai. Sui giornali però ci è finito per la
sua singolare discesa in campo. Per dirla tutta: troppo facile dichiarare non
ho niente contro gli omo, altro conto è dimostrarlo sfilando con la fascia
tricolore sul petto.
Etero, cattolico indisciplinato e «attualmente senza
fidanzata», appare abbastanza infastidito dall'attenzione dei giornali. Il
fatto è che non ha resistito: dopo aver dato un'occhiata alle statistiche, ha
pensato che il tempo delle bocche cucite dovesse finire. «Abbiamo manifestato
contro la guerra, contro il nazifascismo e la violenza alle donne. Difendere le
vittime dell'omofobia è esattamente lo stesso».
I numeri dicono che gli omosessuali italiani sono almeno un
milione e mezzo, i bisessuali il doppio. Il cinque per cento della popolazione
ha orientamento omosessuale, il settanta condanna chi perseguita il prossimo
comunque inteso ma il 40 si dichiara prudentemente contrario a mettere un gay
in cattedra. Concetto, quello del pericolo d'un maestro gay, segnalato anni fa
anche da Gianfranco Fini quand'era leader di una destra rude forte e pura,
partner di Silvio Berlusconi e socio di quella che oggi si chiama Lega ladrona.
Per evitare di esporsi al tiro dei cecchini di partito,
Piras separa in modo netto attività politica all'interno del Pd e militanza per
la difesa dei diritti civili. Inevitabile tuttavia qualche effetto collaterale.
Tant'è che quando gli domandano se per caso si sente in carriera, conta fino a
dieci prima di rispondere. I galloni, per quanto lo riguarda, li ha conquistati
sul campo con una sortita pubblica che altri (molti altri) avrebbero volentieri
schivato.
Del partito parla poco e solo a gentile richiesta. Tra i
suoi tormenti (i tormenti del giovane Piras) c'è anche il Vaticano, che sulla
questione gay non ha notoriamente una posizione d'avanguardia. Ultimo dubbio: è
giusto che un pubblico amministratore si schieri su argomenti che invadono la
sfera privata e le intime opinioni del suo elettorato?
È la sua prima volta in fascia tricolore?
«Da assessore, sì. L'omofobia è una faccenda seria: ci sono
Paesi, soprattutto islamici, dove l'omosessualità è punita con la condanna a
morte. Dalla rivoluzione culturale del '79 a oggi l'Iran ha impiccato
quattromila ragazzi. Di cosa erano colpevoli? D'amarsi».
Militante anche senza fascia tricolore?
«Da privato cittadino ho partecipato a qualche Gay Pride: è
una testimonianza importante contro la discriminazione. L'ho fatto anche a Cagliari.
Accanto a me c'era l'attuale sindaco, Massimo Zedda, proprio come l'altra
settimana».
Chi crede di rappresentare?
«Nel marciare a sostegno delle vittime dell'omofobia, sono
sicuro di rappresentare, senza se e senza ma, l'intera comunità di Jerzu. Il
Gay Pride è un'altra questione, più ampia e più complessa da spiegare».
Certo comunque della solidarietà della sua gente.
«Assolutamente. Dal liceo di Jerzu, che ha appena compiuto
mezzo secolo di vita, abbiamo ricevuto una lettera di plauso firmata da trecento
nomi: insegnanti, personale e studenti. Ci ha molto incoraggiato e convinto
d'essere sulla strada giusta».
Chi pensa, come amministratore pubblico, di tradire?
«Ho paura di un rischio che sto correndo: l'eccesso di
visibilità potrebbe dare un'immagine distorta di questa battaglia. Se accetto
foto e interviste è perché penso che possano capire perfino quelli che si
sentono traditi. E sicuramente ci sono».
L'ha sempre pensata così?
«A 17-18 anni, vivendo in una comunità che ostenta la
virilità maschile, avevo un'idea sbagliata dell'omosessualità e degli
omosessuali. Solo più tardi ho scoperto un mondo pieno di pudore e di civiltà.
La responsabilità dei media su questo tema è enorme».
Perché?
«Perché offre, come quando scrive o mostra immagini del Gay
Pride, solo gli eccessi estetici, i carri più esibizionistici o provocatori. Il
Gay Pride è anche altro, molto altro».
Lei condivide tutto a prescindere?
«No, non amo le esagerazioni di alcun genere. Fermo restando
che la volgarità può appartenere a tutti: a un gay, a un etero che vuole
strafare, a una signora che non ha ben chiaro il concetto del fascino».
L'hanno accusata di voler apparire?
«Non in maniera esplicita. Però non nego che, fossi un
lettore di giornale, potrei pensarlo. Di sicuro quello che ho detto e fatto ha
creato dibattito, qualcuno ha addirittura creduto che avessi coinvolto il
Comune senza esserne autorizzato».
In famiglia?
«I miei sono totalmente solidali. Un mio fratello, che ha
simpatie politiche nell'area Sel (Sinistra ecologia e libertà), m'ha detto
d'essere molto contento perché con questa iniziativa costringevo il Pd ad
esporsi».
A proposito: il partito?
«Il Pd ha posizioni molto diverse sul matrimonio gay, non
sul resto. Ma quello del matrimonio gay è problema che divide tutto il mondo
laico e cattolico».
Altre vocine di dentro?
«Alcuni militanti atei e anticlericali hanno fatto presente
che ci sono questioni più importanti di quelle sugli omosessuali. Il mio
sindaco, Mario Piroddi, invece ha fatto in aula una riflessione molto bella: ha
detto d'essere contro l'ostentazione dell'orientamento sessuale a patto che
valga per gli uni e per gli altri. Condivido fino in fondo».
Preti: muti, vero?
«Neanche una parola. Aggiungo però che devo a un mio vecchio
parroco, don Danilo, l'aver capito che l'amore, l'amore vero, non si fa
condizionare da niente, men che meno dal pregiudizio. L'altro giorno poi una
catechista mi ha sussurrato in un orecchio: bravo. Ero davvero sorpreso: anche
tu dalla nostra parte? Mi ha guardato: sì, ha risposto, naturalmente sì».
Ironie degli amici?
«No. Riesco a prendermi in giro da solo».
Commenti della sua clientela?
«Quando mai, no».
Lei vive in un mondo perfetto, felice e tollerante.
«La verità è che le critiche fanno molto più rumore della
solidarietà. Che magari si esprime con una semplice stretta di mano, non fa
chiasso».
Facciamo il test Giovanardi: se vede due donne che si
baciano?
«La prima volta mi è capitato di osservarle a Madrid, poi in
molte altre città, Cagliari compresa. A parte l'inevitabile stupore iniziale, a
colpirmi è stata la spensieratezza del gesto compiuto alla luce del sole,
davanti a tutti. Giusto per dimostrare che non c'era nulla di ignobile da
nascondere».
Insomma, ha ragione il neuroscienziato Gessa: il malato è
l'omofobo, non l'omosessuale.
«Non mi chiedo se l'onorevole Giovanardi sia sano. Mi limito
a non condividere la sua opinione. Per amore di verità va detto poi che
Gianfranco Fini oggi è molto diverso da quello che un tempo tuonò contro i
maestri gay».
Illuminazione tardiva. E sospetta.
«Allora aveva necessità di tenere compatta una certa base
del partito mentre adesso ha una visione più ampia».
E lei, come la mette con i suoi elettori?
«Distinguiamo l'esercizio della fede dalle opinioni. Chi
sostiene che i gay sono malati dice un'assurdità. A pensare una cosa del genere
è una strettissima minoranza, per fortuna».
Il 14 per cento degli alunni delle medie di Jerzu non
condividono.
«Nelle risposte a un questionario, hanno affermato che
l'omosessualità è una malattia, un disturbo mentale. Proprio per questo ci
interessa portare a Jerzu una serie di iniziative legate all'informazione. Ce
n'è assoluto bisogno: il pregiudizio è spesso figlio della disinformazione».
Ha mai avuto rapporti omosex?
«Questa domanda è inopportuna e quindi non rispondo. Non amo
l'esposizione pubblica del proprio orientamento sessuale. Sono convinto che
riguardi la sfera privata dell'individuo e dunque non c'è ragione di farne un
pubblico manifesto. Comunque...».
Comunque cosa?
«Non sono gay ma se lo fossi non lo direi. Con la mia
battaglia, che poi è battaglia di tutto il Comune, difendo la dimensione
pubblica dell'argomento. Le scelte private di ciascuno non mi riguardano e non
mi interessano, ecco perché non ho risposto».
Ma non ha difficoltà a parlare di amici omosessuali.
«Certo. Il lavoro che faccio mi porta a conoscere un sacco
di gente. Gente di ogni genere. Ho amici gay e sono orgoglioso della loro
amicizia, della loro stima. Da quel che ho potuto capire, pochissimi sono
propensi a fare domanda di adozione. Pensano che i tempi non siano ancora
maturi per parlare del discorso-figli».
E se l'accusassero di opportunismo?
«Non potrei farci nulla. Difendo le opinioni in cui credo.
Sono cresciuto in una famiglia che mi ha educato alla libertà».
Sbagliato dire che oggi è in carriera?
«Ho una grande fortuna: faccio quel che mi piace. Sono stato
il primo presidente di centrosinistra del Consiglio degli studenti
dell'università di Cagliari. Ho mantenuto questo ruolo finché non m'è venuta
voglia di cambiare. Attualmente sono il portavoce del segretario Pd, domani
chissà».
Se le statistiche hanno un senso, a Jerzu ci sono almeno 150
omosessuali.
«Non le ho inventate io, le statistiche. Sono il risultato
di analisi comparate, studi seri e argomentati, autorevoli».
Bene: ha mai colto segni di imbarazzo, paura?
«Il disagio della condizione clandestina l'ho notato altrove
e quindi immagino possa esserci anche nel mio paese. A farmi pensare è il senso
e le difficoltà che un tipo di vita del genere possano comportare».
C'è un episodio che l'ha illuminata sulla via dei gay?
«Sì, la scomparsa di un ragazzo che non era nemmeno del mio
paese. Al di là della solidarietà formale che si deve a chiunque decida di
togliersi la vita, mi ha impressionato quello che è stato l'epilogo, tragico e inatteso.
Si può morire così a ventidue anni?»
pisano@unionesarda.it
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